Molti sono stati gli esperimenti scientifici messi al servizio delle imprese nel corso dell’ultimo secolo per garantire maggiore efficienza e produttività. Non solo macchine e processi produttivi; anche le Risorse Umane sono state oggetto di studio. E le risposte non sono sempre state quelle attese, proprio come nel caso delle Officine Hawthorne a Chicago nel 1924.
Controlliamo la luminosità?
Questa fu la prima variabile che Elton Mayo, sociologo australiano, volle controllare durante i suoi esperimenti presso gli stabilimenti della Western Electric Company. L’idea era quella di modificare la luminosità degli ambienti di lavoro così da poter rilevare eventuali alterazioni nel rendimento delle lavoratrici delle Officine Hawthorne.
In effetti l’aumento della luminosità fece registrare un miglioramento della produttività. Peccato, però, che lo stesso risultato venne ottenuto anche a seguito della diminuzione della luce. Com’era possibile?
Gli esperimenti proseguirono e altri trattamenti furono presi in considerazioni cercando di identificare correlazioni che potessero spiegare quanto accaduto. Intervennero sulle postazioni di lavoro, sugli orari di lavoro, sulle pause disponibili e altri fattori ambientali. Risultato? Il rendimento continuava a crescere.
Tutto ciò fece capire che le risposte, evidentemente, erano da ricercare altrove.
Potrebbero essere le interazioni umane?
La risoluzione partì proprio da questa domanda, la cui risposta arrivò dopo aver intervistato le lavoratrici oggetto dello studio. Ciò che emerse fu un aumento della soddisfazione e della gratificazione derivata dalle attenzioni ricevute dai supervisori dell’esperimento.
Averle coinvolte in quell’esperimento aumentò il loro grado di coinvolgimento, pose davanti a loro obiettivi chiari, le investì di responsabilità in relazione alla natura dello studio e creò una forte coesione all’interno del gruppo.
In estrema sintesi, si sentirono ascoltate, coinvolte e considerate all’interno del luogo di lavoro
Fu così che nacque, casualmente, l’effetto Hawthorne.
Da quel momento venne, in maniera più generale, collegato al fatto che le persone, se consapevoli di essere osservate, tendono a modificare i propri comportamenti.
E se fosse una questione di reciprocità?
Un paio di decenni più tardi un altro sociologo, George Homans, osservò un gruppo di dieci giovani donne il cui compito era quello di contabilizzare i pagamenti dei clienti dell’azienda. Nonostante l’obiettivo orario fosse di 300 registrazioni l’ora, la media risultava di 353. Perché quest’eccesso di lavoro a parità di paga?
Sarà banale, ma la risposta è proprio la paga, più alta di quella offerta dai competitor.
Fu questa l’ispirazione che portò l’economista George Akerlof a proporre un nuovo modello contrattuale basato sullo “scambio di doni” tra datore di lavoro e lavoratore.
Si tratta di uno studio che pone la reciprocità alla base di una maggior soddisfazione per entrambe le parti contrattuali coinvolte in un rapporto di lavoro. Da una parte c’è il dipendente che lavora più del dovuto; dall’altra il datore di lavoro che offre uno stipendio maggiore rispetto alla media di mercato.
Applicato alla teoria dei giochi (Fehr et al. 1993), l’equilibrio di Nash prevede che il “gift exchange” è la condizione che massimizza la soddisfazione per entrambi i soggetti.
Ma è meglio quello che dici o quello che paghi?
Da Mayo a Akerlof emerge che sia il coinvolgimento che la remunerazione offerta possono essere elementi che condizionano i livelli di produttività dei lavoratori.
Nel tempo gli studi sono continuati e la risposta a questa domanda sembra si trovi in un mix di incentivi estrinsechi (contrattuali) e incentivi intrinsechi (motivazionali). Ma non bisogna sottovalutare la forza delle parole, che continuano ad essere il mezzo più potente di un manager.
Ad esempio, il semplice gesto di richiedere direttamente uno sforzo aggiuntivo al lavoratore funziona meglio di qualsiasi incentivo contrattuale.
La cura della comunicazione resta un pilastro di ogni macchina organizzativa e può davvero fare la differenza per il raggiungimento degli obiettivi preposti. Quindi sì: è più importante quello che dici rispetto a quello che paghi!
Ed oggi?
Mentre la letteratura continua ad approfondire le tematiche riguardanti i rapporti lavorativi, dimostrando che la migrazione da “sistema manageriale” a “sistema sociale” può essere la vera chiave del benessere di tutti, cosa sta succedendo nella vita reale?
Sembrerebbero aumentare sempre di più, anche nel nostro Paese, le aziende che stanno decidendo di ridurre gli orari di lavoro lasciando invariato lo stipendio pagato. E fino ad ora i risultati stanno confermando quanto gli esperimenti avevano predetto.
Una nuova cultura aziendale basata sulla reciprocità e sull’aumento degli incentivi intrinsechi potrebbe inaugurare un’innovativa stagione dell’attuale sistema economico, dove il benessere dell’individuo, valorizzato come essere umano, diventerebbe il fulcro del benessere dell’intero eco-sistema in cui è inserito.
Giovanni Romano