Quanto greenwashing c’è nel green marketing?
Chi ancora non ha sentito parlare di green marketing molto probabilmente ci si è comunque trovato davanti, anche senza saperlo ma partiamo dalle basi e rinfreschiamo le nostre conoscenze!
La circular economy è un modello industriale che si basa sulla progettazione dei prodotti/servizi al fine di ridurre sprechi e inquinamento, sull’uso delle risorse naturali senza consumarle e di materiali organici (se vuoi approfondire puoi guardare qui). In parole povere: in ogni fase del processo produttivo si cerca di ridurre gli sprechi e di utilizzarli in qualche altra maniera, ad esempio immettendoli in altri processi, chiudendo quindi il cerchio produttivo.
In questo senso, intendiamo il green marketing come l’insieme di attività promosse dal brand per contribuire a un miglioramento della propria sostenibilità. Alla base del green marketing c’è quindi una responsabilità del brand e le attività messe in atto possono essere molto diverse tra loro, come l’eliminazione della plastica a favore di materiali più sostenibili, la riduzione di emissioni di CO2, l’uso di energie rinnovabili o la riduzione del consumo di acqua.
Diviene quindi necessario comunicare in maniera opportuna il proprio impegno ma se le attività di green marketing venissero fatte in maniera superficiale la comunicazione potrebbe risultare pericolosa. Quanto è sottile, di fatto, la linea tra green marketing e greenwashing? Il greenwashing, per l’appunto, è una strategia di comunicazione volta a sostenere e valorizzare la reputazione dell’impresa mediante richiami alla sostenibilità senza però il supporto di risultati credibili sul fronte del miglioramento dei processi produttivi adottati o dei prodotti e servizi realizzati.
Questo ci porta a riflettere su quanto siamo passivi nella comunicazione delle aziende e quanto diamo per vero ciò che ci dicono senza andare a fondo di ciò che fanno.
La sostenibilità come nuovo trend di consumo e di produzione
Nell’ultimo periodo è stata data maggiore importanza alla sostenibilità e di conseguenza molte aziende si sono dovute adeguare e hanno dovuto aggiustare la loro produzione per soddisfare un nuovo consumatore, (più) consapevole riguardo alle conseguenze delle proprie azioni e di quelle dei brand che acquista. L’informazione sui social è stata fondamentale e probabilmente lo diventerà sempre di più per quegli utenti interessati alla tematica della sostenibilità. Attenzione però perché sostenibilità significa molte cose: non si parla solo di ambiente ma anche di sostenibilità etica ed economica.
Il mondo della moda: i buoni e i cattivi
È molto più semplice lavorare sulla sostenibilità ambientale che su quella etica. Il mondo del fast fashion è un ottimo esempio di green marketing e greenwashing; infatti, al concetto stesso di fast fashion fanno capo stragi e scandali legati al salario minimo e allo sfruttamento dei lavoratori nei paesi del terzo mondo.
In generale, il mondo della moda può essere di grande aiuto per comprendere questi due fenomeni che stiamo affrontando, anche se potremmo guardare molti altri mondi. Mettiamo a confronto due big brand: Patagonia e H&M.
Nel 2011 Patagonia, durante i giorni del Black Friday, ha messo un annuncio pubblicitario sul New York Times che faceva: “Don’t buy this jacket”. Uno spot del tutto provocatorio, che va contro il consumismo e l’acquisto compulsivo di abiti di cui non necessitiamo veramente. Loro stessi ne parlano e il loro sito è molto curato sotto questo punto di vista, se sei curioso leggi pure qui.
L’impegno di Patagonia è molto convincente e ci fa credere che potremmo essere anche noi delle persone migliori. Il loro business model non prevede solo di spingere il consumatore ad acquistare di meno ma di imparare a riutilizzare i propri capi di abbigliamento, dando una seconda vita a quelli rovinati, riaggiustandoli o dandoli indietro così che diventino nuova materia prima da utilizzare.
Una campagna pubblicitaria simile può essere quella di H&M con il suo “Reuse and recycling”, che potrebbe essere un ottimo modo per chiudere quel loop di cui abbiamo parlato all’inizio. Analizzando la parte di comunicazione istituzionale del sito vediamo però che H&M si sofferma molto sulle conseguenze di un capo quando questo esce dal negozio, insomma su quello che facciamo noi consumatori.
Hanno per questo creato il programma “Garment Collecting” per cui si portano in negozio capi di abbigliamento che non si utilizzano più. E chi ci guadagna? Entrambi. Il cliente ottiene un buono sconto e il brand materia prima, gratuitamente e a volte guadagnandoci anche.
Anche H&M, come Patagonia, fa uso di materiali riciclati ed eco-sostenibili, possiamo notarlo dalle etichette verdi nei capi. Ricordiamoci però che H&M è un brand di fast fashion, il che implica l’uscita di 52 collezioni all’anno circa, a basso prezzo. H&M ci dice di comprare di meno o semplicemente di dare a loro capi che non utilizziamo più o di comprare i loro capi responsabili?
Dobbiamo tenere a mente che sostenibilità ambientale non significa solamente utilizzare materiali certificati eco-sostenibili, perché – come spiega UNEP – per produrre un paio di jeans ci vogliono circa 7500 litri di acqua e la colorazione del tessile è il secondo inquinatore al mondo di acqua.
Sicuramente il mondo della moda è complesso perché coinvolge molti processi differenti e cambiare tutta la propria produzione, quando si è un colosso, può essere molto difficile. Bisogna però capire quanto greenwashing c’è nel green marketing dei brand fast fashion. Forse siamo solo noi che abbiamo dei pregiudizi sui big brand della fast fashion? Aspettiamo che parlino loro con qualche campagna o con qualche dato in più.
Se sei curioso di saperne di più sui trend di sostenibilità nel fashion ne avevamo già parlato, leggi pure qui.
Articolo di: Chiara Tordo Caprioli