Si avvicina il Natale e tutti non stiamo più nella pelle.
Che cosa indosserete alla cena del 24? Ci servirà poi sicuramente un vestito nuovo per Capodanno, magari che sia in grado di coprire i kg di troppo presi durante le feste.
Ci sono mille occasioni e, nella nostra testa, ognuna di queste ha bisogno di un outfit diverso, vuoi perché “fa brutto” indossare sempre la stessa cosa, vuoi perché, inutile negarlo, comprare vestiti ci fa sempre sentire bene.
Vi siete mai fermati un attimo a pensare a che impatto ha però tutto questo sul mondo? Nicolò Cipriani lo sa bene. Oggi infatti vorrei parlare del fondatore di Rifò, azienda che molti di voi non conosceranno, ma che merita la vostra attenzione.
Mentre si stava occupando di progetti di cooperazione e sviluppo in Vietnam, Nicolò ha impattato brutalmente su quelli che sono veri e propri ‘cimiteri’ di indumenti abbandonati, spesso provenienti dal mondo occidentale.
Una volta tornato in Italia, con l’idea di creare un brand di moda sostenibile, nel suo ufficio crea ‘Rifò’ (inflessione toscana del verbo ‘rifare’). Nel novembre 2017 avvia una campagna di crowdfunding che ha avuto un successo immediato.
Nel maggio 2018 Rifò entra nel programma accelerazioni startup ‘Hubble’ e nel luglio 2018 viene fondata Rifò s.r.l, che si stabilizza a Prato a novembre dello stesso anno.
Nel giro di due anni, Rifò riesce ad espandersi in più di 107 negozi in tutta Italia e collaborare con colossi come Levi’s e NaturaSì.
Come si può leggere dal sito: ‘ “La nostra mission è semplice:
Rifò vuole creare una linea di abbigliamento e di accessori di qualità prodotta interamente a Prato e dintorni con fibre 100% rigenerate e rientrabili”.
Si possono trovare vari prodotti tra cui t-shirt, teli da mare, calzini, cappelli, coperte, guanti, maglioni, sciarpe ecc… Sono tutti acquistabili sia online tramite l’e-commerce, sia in specifici negozi in tutta Europa.
Perché Prato? Perché “Rifò”?
L’economia di Prato è storicamente basata sull’industria tessile ed il suo distretto è il più grande in Europa.
In Toscano i “cenciaioli” (vedi foto di destra) sono gli artigiani a cui Nicolò si è ispirato; sono infatti loro che, anni fa, hanno inventato le tecniche che permettono di trasformare i vecchi indumenti in nuovo filato. Inoltre, all’interno di Rifò “rifanno” un mestiere che stava per scomparire.
Se pensate che il Vietnam sia un caso isolato vi sbagliate di grosso.
Il fenomeno delle “discariche di vestiti” sta dilagando in tutto il mondo e non se parla abbastanza. Il fast-fashion non è più sostenibile. È molto facile pesare “sono solo 20€” ma il nostro pianeta non è più in grado di sostenere questi ritmi e bisogna pensare ad alternative sostenibili. I vestiti presenti nelle discariche in Vietnam, Africa, Cile (foto di sinistra) e chissà in quali altri paesi ancora, provengono spesso dal mondo occidentale e sono tutti quei capi di abbigliamento che nessuno vuole più. Sapete che fine hanno fatto i vestiti che avete dato via?
Come possiamo pensare che un fenomeno del genere sia sostenibile?
Produciamo più di quello che effettivamente viene comprato, consumando così molto più di quello di cui abbiamo bisogno.
In risposta a tutto questo, si parla di abbigliamento etico e di moda sostenibile; mondi solo apparentemente opposti. A tal proposito, in Italia, nel 2012 è stato promosso il “Manifesto della sostenibilità per la moda” dalla Camera nazionale della moda italiana. L’obiettivo dei 10 punti del manifesto è quello di promuovere e tracciare una moda responsabile e sostenibile nel panorama italiano e favorire l’adozione di modelli di gestione responsabile lungo tutta la catena del valore della moda.
Cosa rende Rifò così speciale?
Quello che mi ha colpito di più di questa storia è il concetto di ‘emozione’.
Per Rifò la moda sostenibile è emozione. È quel maglione fatto a mano che non si vuole a nessun costo buttare, anche se è troppo complicato ripararlo.
Scrivono infatti: “Abituati come siamo a sostituire immediatamente qualcosa di rotto con un prodotto nuovo, sembriamo aver
perso la capacità di stabilire questo legame con gli oggetti.”
È sicuramente allettante l’idea di avere sempre qualcosa di nuovo, ma legare un’emozione, un avvenimento importante o anche solo un ricordo ad un capo di abbigliamento, a mio avviso, è molto più prezioso. I vestiti che indossiamo ci connotano in qualche modo perché sono espressione di quello che siamo.
Pensate a quanto è bello indossare il vestito che la mamma aveva nella foto appesa in cucina o la camicia di quando si è laureato papà. Pensate quanta storia hanno i tessuti con cui vengono realizzati questi vestiti.
Non abbiamo bisogno di produrre ma di riutilizzare.
Impariamo a trasformare quello che abbiamo in nuove risorse.
Articolo di: Elena La Barbera